A oltre 140 moderatori di contenuti di Facebook è stato diagnosticato un
disturbo post traumatico, causato dall’esposizione prolungata a immagini e video
di omicidi, suicidi, abusi sessuali su minori e affini.
A rivelarlo è il Guardian, che ha precisato che i moderatori in questione hanno
lavorato tra le 8 e le 10 ore al giorno nella struttura di Samasource in Kenya,
una società esterna che si è occupata di gestire l’attività di moderazione per
conto di Meta, utilizzando per lo più collaboratori provenienti dall’Africa.
“Le prove sono indiscutibili: moderare Facebook è un lavoro pericoloso che
provoca un disturbo da stress post traumatico per tutta la vita a quasi tutti
coloro che lo fanno”, ha dichiarato al Guardian Martha Dark, fondatrice di
un’organizzazione britannica non a scopo di lucro che sta seguendo il caso dei
moderatori kenioti. Ma Meta non ha rilasciato alcun commento al riguardo.
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"A partire proprio dal tuo lavoro abbiamo diverse domande per arrivare anche
alle ultimissime ricerche che hai fatto con i tuoi collaboratori e altri
ricercatori. Ma prima di arrivare a questo tema vorremmo un attimo definirne dei
contorni e quindi incominciare chiedendoti un pochino come sei arrivato negli
ultimi anni nel tuo lavoro di ricerca a occuparti di lavoro digitale e in
particolar modo di intelligenza artificiale e la sua intersezione col mondo del
lavoro."
Durante tutta l'intervista vengono svelati i molti luoghi comuni legati alla
scomparsa del lavoro a causa dell'Intelligenza Artificiale. Si può dire che il
mito della scomparsa del lavoro è un prodotto ideologico del sistema
capitalistico attuale. Il lavoro al contrario viene nascosto, sempre più
delocalizzato (anche in Madagascar) e sotto pagato. A volte addirittura è il
lavoro umano che sostituisce ciò che viene venduto come Intelligenza
Artificiale: durante l'intervista vengono fatti diversi esempi.
Ascolta l'intervista di Stakka Stakka su Radio Backout
Insieme al colosso degli Iphone e al gruppo di Elon Musk, anche Microsoft,
Alphabet e Dell sono state denunciate da un’ong negli Stati Uniti per aver
consapevolmente impiegato metallo estratto da minatori bambini in Congo. Se i
giudici daranno via libera sarà la prima causa in tribunale relativa alle
forniture di cobalto
Tesla, Apple e altri campioni dell’hi-tech «made in Usa» rischiano di finire
alla sbarra per il cobalto insanguinato. Sarebbe il primo caso in tribunale
relativo alle forniture del metallo impiegato nelle batterie: una causa che fa
da pendent a quella che di recente ha visto ExxonMobil assolta dal reato di aver
nascosto all’opinione pubblica il ruolo del petrolio nel cambiamento climatico e
che potrebbe fare da apripista ad analoghe azioni giudiziarie contro società che
vantano credenziali “green”.
Sono accuse gravissime quelle che International Rights Advocates, una ong
americana, rivolge ad alcuni tra i maggiori utilizzatori mondiali di batterie a
nome di 14 famiglie della Repubblica democratica del Congo, Paese da cui
proviene oltre il 60% del metallo impiegato nei catodi, noto per le continue
violazioni dei diritti umani.
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Maurizio Franzini e Lisa Magnani prendendo spunto da un emendamento alla legge
australiana sul Fair Work, approvato recentemente, riflettono sul diritto dei
lavoratori a disconnettersi fuori degli orari normali di lavoro, ignorando
messaggi e chiamate del datore di lavoro. Gli autori richiamano brevemente gli
ostacoli al pieno riconoscimento di questo diritto e ritengono che in gioco non
vi sia soltanto il problema del confine tra lavoro e non lavoro ma la più
generale concezione del lavoro e del suo ruolo nella vita delle persone.
Il 12 febbraio scorso Camera e Senato australiano hanno approvato un emendamento
che modifica il Fair Work Act del 2009. La notizia ha avuto risonanza a livello
internazionale perché il tema è di grande importanza, per le ragioni che
cercheremo di chiarire. Si tratta del diritto dei lavoratori alla disconnessione
al di fuori degli orari di lavoro, quindi il riconoscimento del diritto di non
rispondere, in quegli orari, a chiamate o mail del datore di lavoro o di terze
parti (ad esempio, clienti).
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Dopo aver raggiunto il successo le grandi aziende tecnologiche finiscono sempre
con lo sfruttare gli utenti, gli inserzionisti e i lavoratori. È ora di
invertire la rotta, per creare una rete davvero libera
L’anno scorso ho coniato il termine enshittification, merdificazione, per
descrivere il declino delle piattaforme digitali. Questa parolina oscena ha
avuto molto successo: evidentemente riflette lo spirito del tempo. L’American
dialect society l’ha scelta come parola dell’anno del 2023 (per questo, temo,
sulla mia tomba ci sarà inevitabilmente l’emoji della cacca).
Ma cos’è la merdificazione, e perché se n’è parlato tanto? È una mia teoria che
spiega in che modo internet è stata colonizzata dalle piattaforme digitali;
perché si stanno tutte degradando rapidamente e completamente; perché è un fatto
rilevante e cosa possiamo fare per rimediare. Siamo nel pieno di una grande
merdificazione, in cui i servizi su cui facciamo più affidamento si stanno
trasformando in mucchi di merda. È frustrante, demoralizzante, perfino
terrificante.
Cory Doctorow è un giornalista e scrittore canadese. Si occupa di diritti
digitali e sicurezza informatica. È consulente dell’Electronic frontier
foundation, un’organizzazione non profit che difende i diritti digitali e la
libertà d’espressione su internet. Questo articolo è l’adattamento di un
discorso tenuto a gennaio per la Marshall McLuhan lecture all’ambasciata del
Canada di Berlino, in Germania.
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