Il Primo Ministro spagnolo Pedro Sánchez ha annunciato che il suo governo
avvierà un'indagine nei confronti di Meta, proprietaria di Facebook e Instagram,
per una possibile violazione della privacy degli utenti delle sue applicazioni
social.
Come riferisce l'agenzia di stampa Reuters, l'inchiesta nasce da una ricerca
condotta da diversi centri di ricerca internazionali, che hanno scoperto che
l'azienda avrebbe utilizzato un meccanismo nascosto per tracciare l'attività web
degli utenti di dispositivi Android, ha dichiarato l'ufficio di Sánchez in un
comunicato.
«In Spagna, la legge è al di sopra di qualsiasi algoritmo o grande piattaforma
tecnologica», ha affermato Sánchez, secondo quanto riportato nella nota. «E
chiunque violi i nostri diritti ne pagherà le conseguenze».
Il governo ha dichiarato che Meta potrebbe aver violato diverse normative
dell'Unione Europea in materia di sicurezza e privacy, tra cui il Regolamento
generale sulla protezione dei dati (GDPR), la Direttiva ePrivacy, il Digital
Markets Act e il Digital Services Act.
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“Il ciberspazio è quel posto in cui si trovano tutti i vostri soldi, a parte il
contante che avete in tasca” era una frase di John Perry Barlow che citavo
spesso a fine anni ’90. Una volta mi invitarono a parlare di digitale a una
piccola conferenza in ambito bancario e mi presi la soddisfazione di dirglielo.
Non mi hanno più chiamato.
Questo per dire che il danaro è già digitale da quel dì, e precisamente dal
1971, quando Nixon fece crollare il sistema della parità aurea e della
convertibilità della valuta in oro. Da quel momento, le banche centrali possono
creare moneta dal nulla, semplicemente mandandola in stampa. Ovviamente,
occorrono delle cautele, perché se un Paese normale stampa troppa moneta, quella
perde di valore, quindi non è una cosa che si fa a cuor leggero. Tranne gli
Stati Uniti, che stampano a destra e a manca perché tanto il dollaro è sempre il
dollaro. Fin che dura.
Cominciamo col dire una cosa: il settore dei pagamenti elettronici è saldamente
in mano americana. E questo oggi è un problema. Perché?
Perché la Corte Penale Internazionale dell’Aja, ha emesso un mandato di cattura
per genocidio contro Netanyahu , Trump si è risentito e Microsoft ha chiuso gli
account prima del presidente, e poi di tutto il personale della Corte.
Il vero problema dell’euro digitale non è un problema tecnico, è un problema
politico: la moneta digitale, senza salvaguardie di un rigore che non abbiamo
ancora mai visto, è il perfetto strumento di sorveglianza di massa.
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Giovedì il governo della Danimarca – che fino alla fine dell’anno ricopre la
presidenza del Consiglio dell’Unione Europea, l’organo che detiene il potere
legislativo insieme al Parlamento Europeo e che rappresenta i governi dei 27
paesi membri – ha detto di aver cambiato idea su una controversa proposta di
legge «per la prevenzione e la lotta contro l’abuso sessuale sui minori» nei
messaggi privati online. La proposta prevedeva che nei paesi dell’Unione
praticamente qualsiasi conversazione privata in digitale fosse sottoposta a un
controllo, ed era stata molto criticata da esperti, attivisti e associazioni a
difesa della privacy.
Ora la proposta alternativa della Danimarca è rinnovare la legge che prevede che
le aziende tecnologiche possano fare questo tipo di controlli volontariamente,
che altrimenti scadrebbe ad aprile del 2026. Se il Consiglio raggiungerà una
posizione comune su questa nuova impostazione, ci saranno poi i negoziati con il
Parlamento per arrivare a un testo condiviso.
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Slitta ancora il voto sul provvedimento in discussione da oltre tre anni. Ma la
proposta resta sul tavolo e il 1° gennaio 2026 sarà Cipro, un altro dei Paesi a
favore del «chat control», ad assumere la presidenza di turno del Consiglio Ue.
Questo significa che il tema resta sul tavolo e, anche in caso di un mancato
accordo da qui a dicembre, si continuerà a negoziare anche il prossimo anno.
Il dibattito sul regolamento contro l’abuso sessuale dei minori sarebbe dovuto
entrare nel vivo proprio in questi giorni. Oggi martedì 14 ottobre, gli Stati Ue
avrebbero dovuto chiarire la propria posizione in merito, facendo emergere una
volta per tutte se la proposta ha qualche possibilità di essere approvata oppure
no.
A fermare nuovamente i lavori ci ha pensato il governo tedesco, il cui voto è
considerato decisivo, che si è schierato pubblicamente contro l’approvazione del
regolamento. Un sito creato nelle scorse settimane, e denominato Fight Chat
Control, ha riassunto le posizioni dei diversi Stati membri. Attualmente, dodici
governi hanno appoggiato il «sì» al provvedimento: Bulgaria, Croazia, Cipro,
Danimarca, Francia, Ungheria, Irlanda, Lituania, Malta, Portogallo, Romania e
Spagna. Nove i Paesi contrari: Austria, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia,
Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia e Slovenia.
I sei Stati rimanenti, tra cui figura anche l’Italia, restano indecisi.
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Il colosso cinese dell’e-commerce JD.com ha annunciato l’acquisizione del gruppo
tedesco Ceconomy, la holding tedesca che controlla MediaMarkt e Saturn.
L’operazione regala al dragone rosso l’accesso a due marchi simbolo del retail
tecnologico tedesco e italiano: MediaWorld e Unieuro. Con il controllo di
Ceconomy, JD.com ottiene, infatti, un accesso indiretto anche a Unieuro, in
quanto, la holding tedesca detiene il 23,4 % della francese Fnac Darty, che nel
2024 ha acquistato la catena italiana.
Si tratta di un affare da 2,2 miliardi di euro, con un’offerta pubblica
d’acquisto al prezzo di 4,60 euro per azione. Una mossa studiata nei minimi
dettagli: JD.com acquisisce così una rete distributiva imponente con 48.000
dipendenti, oltre 22 miliardi di euro di fatturato (dati 2023/2024) e una
presenza in 11 Paesi. In Italia, dove MediaWorld è il secondo mercato per volumi
dopo la Germania, la rete conta 144 negozi e 5.000 lavoratori. Il completamento
dell’operazione è previsto per la prima metà del 2026, dopo il monitoraggio e il
via libera delle autorità antitrust europee. La mossa non è solo economica, ma
geopolitica e in Italia dovrebbe accendere più di un campanello d’allarme.
JD.com – terzo player cinese dell’e-commerce dopo Alibaba e Pinduoduo – non è
nuovo ai colpi di scena. Già attivo in Francia, Regno Unito e Paesi Bassi con la
sua piattaforma Ochama, ora entra dalla porta principale nel Vecchio Continente
con l’acquisizione di Ceconomy. Fondata nel 1998 da Richard Liu con il nome
360Buy, JD.com è diventata negli anni una delle realtà più avanzate
dell’e-commerce globale, distinguendosi per una strategia radicalmente diversa
dai competitor cinesi come Alibaba e Temu. Mentre questi ultimi si affidano a
modelli marketplace aperti a venditori terzi, JD.com controlla direttamente
l’intera filiera, dalla logistica alla consegna, fino alla piattaforma
tecnologica. In Cina può contare su oltre 820 magazzini, più di 37.600 veicoli
per le consegne e una forza lavoro logistica di oltre 323 mila persone.
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LA DENUNCIA DELLE ASSOCIAZIONI PER I DIRITTI DIGITALI «Vengono utilizzati per
facilitare gli omicidi indiscriminati» nella Striscia
Sì, anche i dati. Fornisce soldi e armi per il genocidio, aiuta nella ricerca di
nuovi strumenti per lo sterminio. Ma questo lo sanno tutti, lo conferma la «non
sospensione» dell’accordo di associazione di poche settimane fa. Pochi, però,
sanno che l’Europa fa di più: fornisce, “regala” ad Israele anche i dati dei
suoi cittadini. Che in qualche modo aiutano quel genocidio, sono un “pezzo” del
genocidio.
BENINTESO, la notizia non è nuova. Perché in Europa funziona così: c’è il Gdpr –
la più avanzata delle leggi in materia di privacy e che, non a caso,
infastidisce il comitato di big tech che governa gli Usa – che regola e vieta
nel vecchio continente l’estrazione delle informazioni sugli utenti digitali.
Nel resto del mondo però non ci sono le stesse norme. Così l’Europa – quando i
diritti contavano, all’epoca di Rodotà per capirci – decise che i dati personali
potevano essere trattati da paesi extra europei solo se garantivano gli stessi
standard, la stessa protezione.
Un tema delicatissimo – lo si intuisce – perché i server dei colossi digitali
più usati hanno tutti sede negli States, dove le leggi in materia semplicemente
non esistono. E questo ha dato vita a molti contenziosi, per ora tutti vinti dai
difensori dei diritti, l’ultimo dei quali deve ancora concludere il suo iter.
Ma questo è un altro discorso. Qui si parla di Israele. Otto mesi dopo l’avvio
delle stragi a Gaza, 50 associazioni si rivolsero alla commissione di Bruxelles
perché era già evidente che non esistessero più le condizioni – se mai ci
fossero state – per definire «adeguata» la protezione dei dati europei in
Israele. Di più: le organizzazioni rammentavano che la reciprocità nell’uso dei
dati può avvenire solo – è scritto testualmente – con paesi e governi che
assicurino il «rispetto dei diritti umani».
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Il 6 febbraio 2025 il presidente USA Donald Trump ha imposto una serie di
sanzioni alla Corte penale internazionale per le indagini su personale
statunitense e su alcuni alleati, incluso Israele. Le sanzioni sono state
applicate non con una legge, ma con un executive order — una sorta di “potere
speciale” che il presidente USA può utilizzare in casi di estrema gravità senza
dover passare prima dal Parlamento.
In sintesi, dunque, a prescindere dalla possibilità di un controllo da parte
delle corti USA e non di quelle dei Paesi UE, il dato di fatto —e di diritto— è
che l’esecutivo può decidere di bloccare la funzionalità dei servizi erogati da
Big Tech e ha il diritto, o meglio, il potere, di prendere i dati localizzati
nell’Unione.
Al netto delle sottigliezze del linguaggio diplomatico, infatti, in nessuno di
questi accordi è previsto che la UE possa avere voce in capitolo nelle scelte di
homeland security e di politica internazionale degli USA. Dunque, non si capisce
quale sia l’utilità di avere incluso nel regolamento sulla protezione dei dati
personali delle norme da applicare direttamente in altri Paesi quando questi,
come da ultimo dimostra il caso DeepSeek, possono tranquillamente ignorarle in
nome del principio dell’autonomia delle giurisdizioni.
I fatti e la storia hanno dimostrato come free software e open source
rappresentano un modello alternativo ed efficace per la gestione della sovranità
su dati, informazioni e programmi.
Utilizzare questo approccio alla proprietà intellettuale consente di avere il
controllo pieno sul modo in cui funzionano le infrastrutture e di alimentare la
creazione di un mercato dei servizi alle istituzioni pubbliche e private che non
dipende necessariamente da soggetti stranieri, e lascia le risorse investite nel
territorio della UE.
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Dopo lo stop dello scorso anno, Meta inzierà presto ad addestrare i suoi modelli
di intelligenza artificiale in Europa sulla base dei post e dei commenti
pubblici degli utenti maggiorenni. L'obiettivo è insegnare all'IA a "comprendere
e riflettere meglio culture, lingue e storie" per "consentire di supportare
meglio milioni di persone e aziende in Europa", sottolinea la società di Mark
Zuckerberg.
Si può scegliere di opporsi compilando un modulo. Con tale modulo non si
disattiverà Meta AI (in molti in queste ore vorrebbero eliminarlo da WhatsApp o
dalle chat di Instagram e Facebook, ma non sembra possibile). Semplicemente
aderendo, i propri dati non dovrebbero più confluire tra quelli usati
dall’algoritmo per apprendere e migliorarsi.
C’è però un discrimine importante, come avverte Facebook: “Potremmo comunque
trattare le informazioni che ti riguardano per sviluppare e migliorare l’IA su
Meta, anche se ti opponi o non usi i nostri Prodotti. Ad esempio, questo
potrebbe accadere se tu o le tue informazioni: apparite in un’immagine condivisa
con tutti sui nostri Prodotti da qualcuno che li usa; siete menzionati nei post
o nelle didascalie che qualcun altro condivide sui nostri Prodotti”. Una deroga
che potrebbe aprire un nuovo fronte tra Meta e le autorità europee.
Approfondimenti qui e qui
Meta inizierà ad addestrare la sua IA generativa usando contenuti pubblici
condivisi da utenti adulti in Europa. Gli utenti riceveranno notifiche non solo
per essere informati sulla novità, ma anche per esercitare il diritto di
opposizione.
Dopo lo stop dello scorso anno, Meta ha annunciato che anche in Europa inizierà
ad addestrare i suoi modelli linguistici sfruttando i contenuti pubblici
condivisi dagli utenti adulti sui social, insieme alle interazioni con Meta AI.
Una svolta che punta a rendere l'IA più vicina alle specificità culturali,
linguistiche e storiche del Vecchio Continente, ma che riaccende anche il
dibattito sulla privacy.
A partire da questa settimana, gli utenti maggiorenni dell'Unione Europea che
utilizzano piattaforme come Facebook, Instagram e WhatsApp inizieranno a
ricevere notifiche - via app ed email - per informarli su quali dati verranno
utilizzati e con quale scopo. Ogni notifica conterrà anche un link diretto a un
modulo per esercitare il diritto di opposizione: chi non desidera che i propri
dati vengano utilizzati per addestrare l'IA potrà negare il consenso.
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Dal 2 febbraio entrano in vigore i divieti per l’utilizzo di sistemi di
identificazione in tempo reale negli spazi pubblici, ma secondo numerose ong le
eccezioni previste per le forze dell’ordine rischiano di portare ad abusi.
Dal 2 febbraio 2025 si applicheranno negli stati membri il Capitolo I e il
Capitolo II del regolamento, che includono le proibizioni sui sistemi di AI a
rischio inaccettabile.
Vietati d’ora in poi i sistemi di intelligenza artificiale che potrebbero
indurre le persone a compiere scelte attraverso tecniche manipolatorie;
inutilizzabili i sistemi che sfruttano vulnerabilità di persone o gruppi di
persone (come ad esempio la condizione di disabilità, o quella economica);
vietati i sistemi di polizia predittiva, e quelli che si basano su pregiudizi
etnici o comportamentali.
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